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R1PUD1A: 11 domande e risposte

La Costituzione, come dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è “un grande progetto di trasformazione”, indica come dovrebbe essere la nostra società. Il fatto che l’articolo 11 non sia del tutto “realizzato” non significa che non sia da applicare: obiettivo è la sua completa realizzazione. Anche la democrazia non è ancora realizzata in pieno, ma non accetteremmo mai che qualcuno ci dicesse di rinunciarci solo perché è complicato portarla a pieno compimento. Ipocrita, dunque, è chi giura sulla Costituzione e poi la disattende. Ipocrita è dire che si ripudia la guerra e poi vendere le armi a Paesi in conflitto. Le Costituzioni esistono per legittimare e limitare lo spazio di azione dei poteri nei confronti dei cittadini e viceversa. Spetta ai cittadini e alle cittadine ricordare ai governi quali sono i principi fondamentali della Carta, sorvegliandoli con ogni forma civile e democratica.


I partigiani – di ogni credo politico antifascista – hanno imbracciato le armi sperando che sarebbe stata l’ultima nostra guerra, da combattere per affermare una volta e per tutte il valore della democrazia sulla dittatura. Per questo, una volta conclusa, hanno contribuito a scrivere l’articolo 11. Lo dimostra il dibattito all’interno dell’assemblea Costituente, come il sentire comune fuori dal “palazzo”. Nel 1946 oltre tre milioni di donne, chiamate dall’Unione donne italiane (Udi), firmarono una petizione per il bando delle armi atomiche, portando la loro richiesta, insieme a tante altre donne europee, fino all’Onu. Quel sentimento pacifista e pacifico della popolazione italiana non è mai cambiato, come suggeriscono anche sondaggi e indagini demoscopiche.


Ogni Paese ha diritto di difendersi, lo dice anche il diritto internazionale. L’Ucraina ha il diritto di difendersi, da quando è stata invasa. Sono state le democrazie occidentali a venir meno al loro ruolo, da allora, perché non hanno mai incoraggiato l’iniziativa diplomatica e l’intervento degli organismi internazionali. L’Europa non ha mai provato a fermare la guerra. Ha subito rilanciato dichiarazioni belliciste e iniziato forniture d’armi da allora ininterrotte, che hanno fatto dell’Ucraina un fronte sempre più attivo. È una questione di scelta e volontà politica. Di fronte al rischio di allargamento del conflitto – o addirittura di fronte alla minaccia nucleare – la comunità internazionale dovrebbe richiamare i suoi principi e la sua forza. Per questo chiediamo che le democrazie occidentali cambino strada. E parlino il linguaggio della diplomazia.


L’alternativa alle armi è la coesione delle democrazie nell’imporre o esercitare la più radicale pressione con strumenti incruenti, ma potenti: economici, diplomatici, informatici, energetici. Finora invece abbiamo solo sentito incitamenti alla vittoria finale. Noi chiediamo che il cessate il fuoco diventi la priorità della comunità internazionale. Perché le vite delle persone vengono prima di tutto. I negoziati per un cessate il fuoco si fanno tra nemici. Eppure nel caso della guerra in Ucraina viene sostenuto che un negoziato equivarrebbe alla sua resa. Anche Papa Francesco ha reclamato la necessità di issare una bandiera bianca, ma è stato frainteso, come se chiedesse la resa di fronte all’invasore. Ma la bandiera bianca, un simbolo citato nel diritto internazionale umanitario, è una richiesta di dialogo. Rimanda all’urgenza di un negoziato sotto l’autorità delle Nazioni Unite.


Siamo stati noi a svuotare di significato gli organismi internazionali, usando i loro pronunciamenti per alimentare i nostri doppi standard, accettandoli solo quando ci conveniva. Chiediamo un radicale ripensamento: che il ruolo regolatore degli organismi internazionali divenga centrale, perché solo da lì può derivare una certezza del diritto e una speranza di pace giusta per i popoli. L’Italia deve sempre difendere le prerogative democratiche e rigettare le dittature, tanto più se queste ultime aggrediscono altri Stati. L’Italia non può in nessun caso considerarsi super partes davanti alle violazioni del diritto internazionale, perché nel diritto risiedono le speranze democratiche dei popoli contro l’arbitrio e l’uso della violenza. Tuttavia, per una democrazia aiutare la parte lesa vuol dire agire con ogni mezzo incruento: prima per ottenere la cessazione del conflitto e poi per comporre una pace giusta per i popoli. Tutto il resto non fa che alimentare nuove stragi di innocenti. Lo dice la storia, lo dice il diritto.


L’Italia può rivendicare molte esperienze concrete e ha anche delle accademie nel campo della diplomazia e del diritto internazionale. Eppure in questi anni, di fronte al ritorno dei tamburi della guerra, abbiamo sentito i nostri governi e grande parte della politica parlare poco di diplomazia, di negoziati, di diritto alla pace e molto di armi. Succede in tutta Europa, non solo in Italia. È come se ci stessimo dimenticando del nostro ruolo, della nostra storia. Il diritto internazionale dei diritti umani, che ha le sue radici nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti umani, definisce la guerra un “flagello” e, come la nostra Costituzione, la ripudia. Noi chiediamo che l’Italia tenga fede alla sua storia e alla sua Costituzione. Pretendiamo che sia impegnata in prima linea non nella vendita o nella fornitura di armi, ma nella composizione dei conflitti. È un ruolo difficile? Certo. Ma diffondere armi e morte non è in nessun modo preferibile.


Una pressante campagna di propaganda ha gettato discredito sulle parole di pace, definendole inutili. Non è così. La diplomazia (mediazioni, dialoghi, trattative) è uno strumento reale: il negoziato è la base della diplomazia della risoluzione dei conflitti perché fa tacere le armi. Non è un riconoscimento di vittoria o sconfitta. Semmai è il primo passo per trasferire la contesa dalle armi alle parole. Ci sono poi mezzi cosiddetti arbitrali, obblighi decisi da una terza parte (la Corte di giustizia o un gruppo di Stati) nel caso di Paesi che violino i principi del diritto internazionale o persistano in aggressioni e violenze. Fino alle sanzioni (di solito economiche) che interrompono scambi e investimenti diretti a uno o più contendenti in un conflitto, decisi da organizzazioni regionali o dall’Onu. Ma perché questi mezzi funzionino devono essere attuati davvero e fino in fondo.


Non è un principio solo italiano. Dopo la Seconda guerra mondiale anche altre Costituzioni si sono dotate di pronunciamenti simili. L’articolo 9 della Costituzione giapponese (1947) recita che il popolo “rinuncia per sempre alla guerra quale sovrano diritto della nazione e alla minaccia o all’uso della forza…”. La Costituzione francese (1946) nel suo preambolo afferma che la Repubblica “non intraprenderà alcuna guerra a scopo di conquista e non impiegherà mai le sue forze contro al libertà di alcun popolo”, mentre quella della repubblica federale tedesca (1949) sostiene che “le azioni idonee a turbare la pacifica convivenza tra i popoli, in particolare a preparare una guerra offensiva (…) sono incostituzionali”. Vi si ritrova dunque la stessa radicalità del nostro “ripudia”. Senza dimenticare le istituzioni internazionali – Unione Europea, Nazioni Unite – sorte proprio nell’idea di essere luoghi di costruzione della pacifica e libera convivenza.


Dalla sua nascita l’Onu ha completato 58 missioni di mantenimento della pace. Dopo i negoziati per la fine delle ostilità e il ripristino delle relazioni tra Paesi contendenti, si incarica di aiutare le parti a rispettare gli accordi siglati. Per farlo ha spesso scelto di inviare missioni di soldati propri, ufficiali di polizia e personale civile per garantire la sicurezza e il ritorno a una vita disarmata. I soldati nell’Onu, detti caschi blu, sono messi a disposizione dagli Stati membri. Attualmente sono in corso 15 missioni di pace. Non è vero dunque che l’Onu abbia “fallito”. L’Onu e la comunità internazionale però non riescono più a rispondere in modo efficiente alle trasformazioni del mondo. La comunità internazionale infatti è figlia della Seconda guerra mondiale e dei suoi equilibri, basta vedere il meccanismo che consegna il potere di veto ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina). Oggi un vasto movimento di giuristi, organizzazioni internazionali e Stati propone di riformare l’Onu rendendola più democratica, non certo di farne a meno.


La Nato è un’organizzazione chiusa, che non rappresenta l’intera comunità internazionale. La sua natura di alleanza militare potrebbe contrastare con l’articolo 11 della Costituzione, che parla espressamente di “limitazioni alla sovranità” al solo scopo di assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Tuttavia, va ricordato che la Nato ha un ruolo dichiarato di difesa dello spazio territoriale da attacchi esterni e tra i suoi scopi non figura la guerra come strumento attivo per aggredire altri Stati. Allo stesso tempo la fine dell’Unione sovietica ha imposto un significativo cambiamento di prospettiva dell’alleanza e un suo progressivo allargamento territoriale, facendone un attore della politica internazionale che necessiterebbe di una maggiore discussione pubblica e democratica. Anche nel nostro Paese.


Dal 1945 a oggi possiamo contare almeno 265 conflitti interni o internazionali e più di 25 milioni di esseri umani hanno perso la vita. In queste nuove guerre il 93% delle vittime sono civili, il restante 7% combattenti. Le guerre non si combattono più in trincea, sul fronte, ma coinvolgono tutto il territorio di una (o più) nazioni. Attaccare i luoghi nevralgici e produttivi, nonché i luoghi simbolici di un Paese, bombardare le industrie, le infrastrutture, i porti e distruggere le città diviene una priorità della nuova strategia di guerra, una “guerra totale” che minaccia e distrugge la vita di tutti i giorni delle persone. Per questo se le vittime civili erano una ogni dieci all’inizio del Novecento, alle soglie del Duemila erano già diventate nove su dieci.